Citazione...

E così accade che legga mille e mille libri,
sulla stupida arte di essere felici...

mercoledì 8 aprile 2009

Il Fantasma di Neve

Quella che sto per scrivere, è una storia a capitoli, di cui in futuro vorrei fare un libro. Cercherò di pubblicare qualche capitolo, i più interessanti, magari per invogliarvi in futuro a cercare la versione intera :)

La storia, come fece Bram Stoker, è scritta come se fosse raccontata ad un diario, ma non so se terrò questo schema per sempre. Boh! Decido io ;)

Capitolo 1, Il Fantasma

1/12/1999
Caro Diario,
Ho deciso di iniziare a scriverti per sfogare su di te tutti i miei pensieri e cercare, magari rileggendo in futuro, il vero corso degli avvenimenti. Cercherò di aggiungere uno o due interventi al giorno, anche se credo che difficilmente saranno sufficienti. Stanno accadendo veramente molte cose ultimamente, e di queste, molte sfuggono alla mia comprensione.
Cercherò di iniziare dal primo degli eventi che, credo, abbia scatenato questa serie di circostanze, che mi portano ora a scrivere queste righe, chiusa in camera mia.
Vivo a Golbohora, una piccola città arroccata sulle montagne. E’ la classica cittadina che vive solo in inverno grazie al turismo. Conta circa dodicimila abitanti, ma la superficie della città e sproporzionata, e il vero centro abitato è occupato da circa tre, quattromila abitanti. Mi sono trasferita qua con la mia famiglia l’anno scorso. Mio padre venne licenziato dalla ditta presso cui lavorava da oltre vent’anni, ma fortunatamente una ditta di qui lo chiamò subito offrendogli un ottimo incarico. Non si era mai interessato a cambiare lavoro, ma necessità fa virtù, e così siamo venuti qui. Anche mia madre perse lavoro nello stesso periodo, ma lei lavorava come badante presso una gracile signora di 86 anni, e passava lì tutti i pomeriggi, a tenerle compagnia, leggerle libri, prepararle i pasti, lavarla... Spesso anche io andavo a trovare quella anziana che tanto mi era diventata simpatica. Purtroppo, l’età era avanzata, e la gentile vecchina ci abbandonò.
Padre e madre si trovarono entrambi senza lavoro, con un’ottima offerta in un’altra città, così lontana da quella che era stata la nostra casa sin dall’infanzia. Decisero di accettare l’offerta. Nel giro di due settimane trovarono questa casa, più grande della precedente, finalmente adatta a contenere l’intera famiglia, composta da 6 persone. Oltre a me, ci sono infatti altre 3 figlie.
La casa è a pochi chilometri dal comune, ancora nel centro abitato, vicino agli alimentari. All’esterno è con i tronchi in vista, come una vera baita, ma il cemento nascosto alla vista la rende incredibilmente calda.
La popolazione sembra simpatica e gentile, il freddo della neve perenne sembra sciogliersi con il calore dei loro cuori. Tuttavia, è molto superstiziosa. In quest’anno che ho già frequentato in queste scuole ho conosciuto tutti i ragazzi del circondario. Ragazzi normali, nessun pazzoide, niente ragazzi strani, tenebrosi o presunti psicopatici.
Tutto sommato, un paesino tranquillo, di quelli che non finiscono nei libri di paura o nei telegiornali per omicidi plurimi.
Ma anche quì ci sono alcune tradizioni, credenze popolari, leggende di un tempo che fu e che, forse, non hanno più senso di esistere. Ma ci sono ancora, tramandate oralmente di padre in figlio. Più per rispetto per i parenti che furono, sono arrivate sino ad adesso alcune storie da raccontare intorno al fuoco, magari in una notte d’estate senza luna.
Una di queste però domina su tutte le altre, me la raccontarono proprio quest’estate, quando con alcuni amici organizzammo una gita su in montagna, ad altezze maggiori, con sacchi a pelo e tende.
Parlava di un fantasma, come ogni storia di paura che si rispetti, e proprio di un fantasma che si diceva disturbare quel territorio nel periodo prenatalizio ogni anno. Giustamente, ogni paese di montagna doveva averne uno, anche per il turismo era un vero e proprio toccasana, con centinaia di stranieri che ogni anno si recavano a Golbohora speranzosi di vedere il famoso Fantasma delle Nevi. Molti di loro spergiuravano anche di averlo vista. Le turiste più femministe, invece, assicuravano che non si trattasse di un Fantasma comune, ma bensì di un fantasma donna.
La storia narrava di una famiglia benestante, che dominava su quelle terre da anni. Il capofamiglia, un uomo anziano ma imponente, era temuto e rispettato da tutti. Nessuno ne conosceva il nome o il cognome, ed in luce di ciò veniva chiamato Innominato. Mai era stato visto uscire dal castello, come nessuno della sua famiglia, che però si sapeva essere composta da 3 persone, forse 4. Le poche notizie a disposizione dei pettegoli, arrivavano da una delle domestiche, che ogni quattro, cinque giorni si recava in città ad acquistare alcuni prodotti tipici locali. Non una vera e propria spesa, dunque. Gli acquisti non erano numerosi, ma la domestica si dilungava spesso, perdendo anche tempo, per aver la possibilità di esser vista da più gente possibile, e suscitare l’invidia altrui. Lei, infatti, era l’unica persona a conoscere come fosse l’interno del castello, e la città.
Quando una persona è costretta a vivere con le stesse persone, circa una trentina tra famigliari, domestici e maggiordomo, accumula molti pettegolezzi, da divulgare il più possibile ad ogni occasione. Così, quelle fugaci apparizioni all’alimentari vicino casa nostra divenivano occasioni per tutto il vicinato per scoprire nuovi dettagli su quello che era stato definito “il nido del corvo”, tant’era arroccato e inviolabile.
Così si venne a sapere che l’Innominato veniva chiamato Maestro, Signore o Padrone da tutti i residenti nella casa, e quindi nessuno poteva finalmente dargli un nome; si scoprì che era sposato, con una donna con cui non condivideva la stanza da letto, ma da cui aveva avuto tre figli, probabilmente di più. Uno di questi era ancora vivo, degli altri non si avevano tracce. Non veniva fatto preparare del cibo per loro, non c’erano stanze da riordinare oltre a quelle del Padrone, della moglie e di quel figlio, ma ogni tanto si sentivano voci femminili attraverso i muri, facendo pensare ad una serie di stanze a cui si accedeva da chissà dove.
Lingue maligne sussurravano che quelle voci erano di una figlia del padrone, nata femmina ed in quanto tale disprezzata, ma segretamente tenuta in vita.
Quando iniziarono a diffondersi queste voci, si ebbe un periodo in cui la domestica non si recò più al villaggio, e dopo due mesi venne sostituita da un’altra. Quando le venivano poste domande su chi fosse o da dove venisse, guardava con sguardo vago verso il castello, e tornava a pensare ai suoi affari. Nessuno, pare, ne sentì mai la voce.
Dopo poche settimane dalla comparsa della nuova domestica, una scoperta raccapricciante sconvolse il paese.
In un fosso, alla fine dello strapiombo che faceva da lato al castello, venne ritrovato il cadavere di una donna, mutilato, con la mandibola distrutta e separata dal corpo.
Il sangue rappreso, gli occhi aperti in un’espressione che suscitava pietà e disgusto.
La donna era la domestica del castello, ma fu possibile riconoscerla solo dal taglio e dal colore degli occhi. I capelli erano insudiciati dal sangue, il viso sfigurato dalla mascella estirpata, il corpo consumato dagli animali selvatici.
Aveva parlato troppo degli affari privati del castello, e per questo fu punita.
Ma la cosa più raccapricciante fu scoperta solo quando arrivò il becchino, per portare la salma al cimitero. Sotto il corpo freddo, infatti, ne trovarono un altro. E un altro, e altri, e altri ancora. Ne contarono trentanove, prima che fu impossibile distinguere i resti di una persona da quelli di un’altra, tanto erano putrefatti e in avanzato stadio di decomposizione.
A fronte di tale scempio, di tale massacro, l’intera popolazione del villaggio si mobilitò, e si recò con torce e forconi dinnanzi al castello. Quella notte passò alla storia della città come la “Notte del Grande Fuoco”, e cadde il 15 Dicembre. Riuscirono a buttar giù il portone d’accesso, e iniziarono a dar fuoco a ogni cosa capitasse loro a tiro. Nell’ira e nella rabbia, ogni membro della famiglia venne massacrato, trafitto dai forconi, dato al rogo delle fiamme dei mobili, in mezzo ad urla strazianti di dolore e morte.
I domestici scapparono terrorizzati, e quando le fiamme cessarono lasciarono soltanto le mura in pietra, ancora saldamente in piedi, quasi a sfidare l’immane forza iraconda del popolo.
Nessuno entrò più in quell’edificio per mesi, il tempo passò, gli inverni si susseguirono, e le mura, abbandonate a sé stesse, crollarono nel giro di pochi anni. Tutto quello che restò erano solo pietre, e resti di quel rogo, memoria della crudeltà dell’uomo.
Ma nella furia di giustizia che colse quella notte la cittadina, nessuno pensò a quella donna, che aveva parlato di voci di donna che si sentivano tra i muri, e nessuno si rese conto che quelle voci erano reali e urlavano di paura mentre il fuoco avvampava. In delle stanze segrete, infatti, era tenuta la figlia illegittima dell’Innominato, che nessun uomo avrebbe potuto vedere, tanta era la vergogna dovuta alla sua nascita fuori dal matrimonio. Figlia di una domestica, immeritevole, ma aveva suscitato troppa pietà al momento di ucciderla, e venne risparmiata. Condannata a rimanere a vita in una sorta di seconda casa nascosta nella prima, riceveva visita del padre ogni notte.
Quella notte, in quel turbinio di fuochi, in quel grondare di sangue dalle ferite dei forconi, in quel susseguirsi di urla, nessuno si accorse delle sue. E lei rimase imprigionata nella sua galera, finché la fame e la sete non le fecero abbandonare questo mondo.
O almeno, non fecero cedere il suo corpo. Ma non il suo spirito, che rimase incatenato a questo mondo e a quel carcere, finché l’erosione non distrusse le mura, e la liberò.
Secondo alcuni, da quel giorno ogni anno, lei si sarebbe ripresentata in quella zona, a cercare il suo corpo, chiedendo solo una degna sepoltura.
Secondo altri invece, lo spettro tanto famoso era solo quello dell’Innominato, che tornava a cercare la propria vendetta.
Quello che rimase alla storia, e che fomentava le voci e le credenze popolari, erano le strane coincidenze, che portavano ogni anno un uomo, intorno ai 39 anni, a morire proprio in quel villaggio.
Perché ti ho raccontato questa storia, caro diario?
Perché credo che da questa sia nato tutto.Settimana scorsa, infatti, è morto un 39enne. Uno stupidissimo incidente, scivolato su una lastra di ghiaccio di fronte alla Cappella, è finito nel burrone dei ritrovamenti.
Un banale incidente, sufficiente a risvegliare cupi terrori e strane paure di arcane maledizioni, nella mente della gente del posto.
Ma stanno accadendo cose strane, e a questo mi servi tu, diario. Col tempo, scrivendo tutto, magari riuscirò a ricomporre il puzzle che regola questi eventi, chi lo sa. Magari sarò proprio io a far luce su questa storia, dopo oltre trecento anni di gente che ci prova!